Abbiamo incontrato a Napoli gli attivisti del Centro Sociale Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo, un ex ospedale psichiatrico che è stato sottratto all’abbandono, sistemato e restituito alla città e al quartiere. Je so pazzo’ è il nome che hanno scelto, “perché in un mondo dove la normalità è fatta da disoccupazione, precarietà, discriminazioni razziali e di genere e chi più ne ha più ne metta, vogliamo (…) costruire dal basso un’alternativa al mondo grigio e disperato che vediamo quotidianamente”. “Se la normalità è così tragica, noi saremo pure pazzi, ma di certo siamo convinti di riuscire, tutti insieme, a rivoluzionare questa città, questo paese, questo mondo!”. Ci siamo fatti raccontare qualcosa di più di questa esperienza “pazza” di rigenerazione urbana…
Qual è la storia di Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo?
La storia di questo posto, che si trova nel quartiere Materdei, nella periferia di Napoli, inizia nel 1573, anno della sua fondazione. Era un monastero di devoti a Sant’Eframo, e resta tale fino al 1859. Il monte su cui nasce veniva chiamato Monte di Sant’Eframo, tutt’intorno era aperta campagna e il centro era molto lontano. Quando ci fu la prima unità d’Italia i Savoia confiscarono il posto alla Chiesa e lo fecero diventare una loro caserma, per avere un punto d’appoggio in città. Sotto il fascismo, circa sessant’anni dopo, diventò un manicomio criminale e restò tale, cioè un carcere per pazzi, fino sostanzialmente al febbraio 2008 (pochissimo tempo fa) quando fu chiuso. Dagli OPG sono passate migliaia di persone e moltissime ci sono morte. È stato una vera e propria discarica sociale,
Come è nata l’idea dell’occupazione?
Il posto, di proprietà del Demanio, era affidato alla Polizia penitenziaria che ne aveva ancora la gestione quando noi, il 2 marzo 2015, lo occupammo. Nel 2005 c’era stata un’inchiesta promossa da alcuni consiglieri regionali, giornalisti etc., che avevano deciso di entrare qui perché le violazioni dei diritti umani erano cosa stranota. A Napoli c’era stato fino dagli anni Settanta un forte movimento anti psichiatrico – qui c’era il medico Sergio Piro, stretto collaboratore di Franco Basaglia -, e molte lotte per cercare di migliorare le condizioni vita in questo posto, che erano ancora tremende. Ma solo nel 2005 un gruppo istituzionale locale decise di entrare e trovarono una serie di violazioni. Qui abbiamo avuto il caso record in Italia per anni di detenzione, quello di Vito De Rosa, un uomo recluso per 52 anni finché non gli fu concessa la grazia a Ciampi nel 2003. Qui infatti vigeva un sistema di proroghe, detto “la stecca”, per cui si poteva bloccare lo sconto della pena. Solo nel novembre 2011 sarebbe arrivato il Decreto Legge 22 dicembre 2011, n. 211, poi convertito nella Legge del 17 febbraio 2012, n. 9, per il definitivo superamento degli OPG. Però, per via delle proroghe, gli OPG sono stati chiusi definitivamente solo nel marzo-maggio 2015, con forte ritardo sull’attuazione della Legge 30 maggio 2014, n. 81. Quando noi occupammo entrammo quindi in un carcere che formalmente era ancora in funzione, e la concomitanza con l’approvazione della normativa per la chiusura degli OPG diede particolare risalto alla nostra occupazione.
Cosa avete trovato?
Questo posto, una volta chiuso nel 2008, fu completamente abbandonato. Lo trovammo devastato: vestiario e oggetti di ogni tipo a terra, come se la gente fosse fuggita. Probabilmente non prepararono le persone al trasferimento in altra struttura, tutto dovette avvenire da un giorno all’altro: portarono tutti d’improvviso all’OPG di Secondigliano, rimasto aperto fino al 2015. In questa situazione la polizia penitenziaria saccheggiò un po’ tutto quello che poteva riutilizzare, addirittura mise all’asta dei beni, venne rubato il filo di rame dalle pareti, le tubature. Su 150 bagni presenti nella struttura non era rimasto neanche un gabinetto. Trovammo le pareti gonfie d’acqua crollate, pezzi di muto divelti, la vegetazione invadeva tutto.
Le persone del quartiere parteciparono? Vi appoggiarono?
Come dicevo, noi abbiamo occupato nel marzo 2015 e siamo stati subito denunciati dalla polizia penitenziaria, proprietaria della struttura, che provò a sgomberarci in modo maldestro. É una storia un po’ particolare. Inizialmente pensavamo di fare un po’ di lavori per rendere agibile la struttura, alla fine decidemmo di aprire direttamente: arrivarono migliaia di persone. Nessuno aveva mai visto questo posto, da sempre un carcere, non ne esisteva neppure una mappa – ne è stata fatta una successivamente dagli studenti di architettura dell’Università Federico II di Napoli che hanno fatto qui un progetto. Le celle erano disposte in tutta la struttura e di fronte ci sono i palazzi, per cui le persone sentivano le grida dei reclusi quando venivano malmenati. Era un luogo che faceva paura, per cui tanta gente ora voleva vedere. Sono entrati anche ex detenuti che erano stati qui 10-15 anni senza mai saperne nulla. Con la nostra occupazione si creò un movimento affettivo che rese il posto subito frequentatissimo. Così un mese dopo (noi abbiamo dormito qua per 4 mesi tutti i giorni per evitare che fosse sgomberato) si avviò un percorso complesso, ancora in itinere, con il Comune di Napoli.
Come siete usciti dalla situazione di denunce?
Nella “Legge Marino” (Legge del 17 febbraio 2012, n. 9) è previsto che gli OPG dismessi possano diventare proprietà dei Comuni che si propongono di acquisire il bene del Demanio [Art. 3-ter]. Noi all’epoca aprimmo il posto a tutti, e chiamammo stampa e giornalisti. Il magistrato che seguì la vicenda non solo decise il nostro sgombero per occupazione abusiva, ma contestualmente procedette nei confronti della polizia penitenziaria per danno erariale. Riuscimmo ad attivare un tavolo tra Sovrintendenza dei Beni Culturali (che non ne sapeva niente e non ne voleva sapere niente di questa vicenda), il Demanio (che non ci voleva mettere soldi) e il Comune di Napoli che, per il rapporto politico che si venne a creare con noi, si rese disponibile ad acquisirne la proprietà. Oggi è in corso il passaggio di proprietà col Comune, ma non si riesce a concludere. Sono stati fatti purtroppo una serie di abusi edilizi da parte della polizia penitenziaria, per cui il Demanio ha mandato una lettera per bloccare la procedura. E poiché nella manovra prevista dal governo il Demanio deve fare cassa [cfr. il Piano di vendita], il bene potrebbe essere rimesso in vendita.
Come è fatta la struttura e come funzionava?
La struttura si compone di 9.000 mq e presenta in prevalenza l’impianto dell’antico monastero, con tre chiostri. Alcune parti sono state aggiunte successivamente, negli anni ‘50-’60. Nelle celle a pieno regime c’erano 300 detenuti, circa 120 poliziotti, soltanto un’ottantina di persone tra amministrativi e infermieri, solo tre medici per tutta la struttura. Non aveva niente dell’ospedale, era un carcere. Salendo verso la zona delle celle c’è uno spazio in cui abbiamo trovato tutto distrutto. Lì c’è anche la zona detta di “semilibertà”, in cui passavano i pazienti che da lì andavano nella Sala colloqui. Sotto c’è la casa del Custode e tutta un’ala del palazzo che si collega con la Caserma, in cui abitavano i secondini, una di quelle zone che dovremo prima o poi sistemare. Salendo c’è un palazzo di tre piani. Abbiamo riqualificato molte cose, ma chiaramente ci sono ancora intere ali di palazzo che andrebbero rimesse a posto. Ad esempio c’è il vecchio giardino del monastero in cui la polizia penitenziaria ha buttato l’amianto, dunque al momento è inutilizzabile e una bonifica del terreno sarebbe complicata. Dove abbiamo creato il campetto da calcio è ancora pieno di detriti: perché man mano che il posto si andava svuotando, e con l’idea che si sarebbe abbandonato, le cose che si rompevano venivano buttate lì, facendone una discarica…
Come avete riorganizzato il posto?
Con molti progetti e attività.
Facciamo raccolta indumenti e collaboriamo con le associazioni che si occupano di fare distribuzione di pasti ai senza tetto. É nato un progetto di accoglienza due anni fa quando ci fu l’emergenza freddo: aprimmo le porte dell’OPG e ospitammo una trentina di senza tetto con cui avevamo già creato una relazione.
É poi nato il percorso della Rete di Solidarietà Popolare – di cui siamo noi un po’ il perno, ma ci sono anche parroci e associazioni di volontariato, scout e altre realtà. Siamo riusciti a … occupare una chiesa! A Napoli ci sono 200 chiese abbandonate, un patrimonio ecclesiastico incredibile, ma completamente trascurato. E c’era questa chiesta abbandonata da 6-7 anni, anche quella un vecchio convento, che dentro aveva varie camere utilizzate fino a 10 anni prima da alcuni frati redentoristi. Volevano venderla, ma da anni era chiusa, quindi l’abbiamo occupata. Qui abbiamo fatto anche un Gospel sotto Natale! Soprattutto abbiamo dato l’opportunità a dei senza tetto di vivere lì. E alcuni di loro, avendo trovato una qualche stabilità, hanno anche trovato lavoro. Ovviamente intermittenti, ma tre di loro oggi si sono addirittura presi una stanza in affitto e si sono reinseriti, vite ripescate.
Il grosso del lavoro politico lo abbiamo fatto con lo Sportello Legale. Il numero di permessi di soggiorno che negli anni abbiamo ottenuto è altissimo. Abbiamo conquistato la fiducia di tanti migranti. Abbiamo l’unico caso di CAS chiuso in Italia grazie al controllo popolare: sostanzialmente, facciamo un appello ai migranti, li invitiamo a venire qui, li “in-formiamo” sui loro diritti e facciamo visite a sorpresa nei centri quando ci mandano delle foto di condizioni inidonee e ingiuste. Documentiamo, andiamo in Prefettura e denunciamo affinché se non hanno alternative chiudano il posto, altrimenti informiamo la stampa, perché non sono condizioni di vita accettabili. Adesso con Salvini tutto è diventato molto più difficile perché è stata riformata la modalità di ottenimento del permesso di soggiorno e di status di rifugiato, ed è cambiato l’atteggiamento di questure e prefetture, molto più chiuse al confronto.
Da Dove siete entrati c’era la casa del custode, che oggi utilizziamo in diversi modi: per dare appoggio ai migranti militanti o per accogliere persone del quartiere in situazioni di particolare indigenza. Dopo il Chiostro medievale, che ripuliamo regolarmente, c’è la parte che era dell’Amministrazione penitenziaria in cui oggi facciamo i corsi di lingua. Abbiamo una stanza semplice in cui c’è il sindacato e in particolare a Napoli c’è la più grande comunità srilankese d’Italia che ha messo su l’Associazione Ethera Api in collaborazione con la nostra Camera del Lavoro. Ci sono anche stanze che stiamo rifacendo completamente, ad esempio per farle autogestire ai ragazzi.
Quali sono ad oggi le attività più seguite?
Ci sono stanze adibite ad attività che sono fisse e seguiamo un calendario che cambia anno per anno, semestre per semestre. Abbiamo sia gruppi di lavoro più politici, sia promuoviamo un’attività più “sociale” in stretto rapporto col quartiere. La nostra idea fondamentale è il mutualismo, che è il nostro punto forte. Le attività più stabili e su cui puntiamo di più sono: sport, doposcuola, teatro, musica, salute, Sportello migranti e Sportello lavoro.
Abbiamo uno Sportello d’Ascolto con psicologi, psichiatri e di contrasto alla violenza di genere, anche per mantenere un legame con la storia di questa struttura, appunto un ospedale psichiatrico-giudiziario. C’è molto malessere psichico, ma ovviamente non ci sono le strutture per trattarlo.
Poi abbiamo attivato una parte ambulatoriale: abbiamo creato un Ambulatorio Popolare che adesso è riconosciuto anche dal Comune di Napoli. Abbiamo creato un rapporto con il Banco dei Farmaci e le ASL che ci forniscono medicinali che possiamo distribuire rapidamente. Funziona molto bene, è una delle attività più riconosciute nel quartiere. Si è talmente ingrandito che siamo andati a crearlo anche in altre parti della città come Potere al Popolo! In particolare ginecologia ha un suo sportello, con gli ecografi: in due anni abbiamo fatte 837 ecografie gratuite! Il quartiere è abbastanza povero, facciamo visite soprattutto a gente in condizioni di indigenza e migranti.
Facciamo molte giornate di prevenzione una volta al mese (ad esempio sui tumori, facciamo tante mammografie). Ogni gruppo che segue un’attività elabora anche un’idea di funzionamento di quel settore: così nel campo della salute i medici hanno lavorato molto sulla medicina di base secondo la concezione cubana, sulla prevenzione e sulla nutrizione. Abbiamo infatti anche nutrizionisti e specialisti, come per pneumologia e cardiologia (nel quartiere una patologia molto diffusa).
Cerchiamo di fare il possibile. Per provare a garantire servizi che non riusciamo a fare qui, come ad esempio il dentista – non abbiamo abbastanza spazio e soldi per le attrezzature – abbiamo creato una rete solidale di contatti verso cui indirizziamo le persone che non possono permetterselo. Abbiamo ad esempio collaborazioni con i Valdesi o con Emergency a Ponticelli…
Cosa avete fatto per favorire un legame più stretto fra città e mondo del lavoro?
Abbiamo attivato una Camera Popolare del Lavoro, con cui facciamo vari tipi di intervento: c’è un collettivo che si occupa di conflitto capitale-lavoro, facciamo inchiesta sulle condizioni lavorative a Napoli e nell’area metropolitana, seguiamo le vertenze e proviamo creare legami di solidarietà fra i lavoratori. Abbiamo anche attivato uno Sportello Legale gratuito e una Cassa di Resistenza a disposizione di lavoratori e lavoratrici. Inoltre facciamo una campagna fissa sul lavoro nero. In particolare con lo Sportello Lavoro, un impegno crescente nel tempo, recuperiamo molti soldi con le cause contro il lavoro nero e soprattutto nella ristorazione. In questo ambito nessuno aveva mai fatto causa perché i ragazzi spesso non conoscono i loro diritti, così abbiamo preparato dei manualetti di autodifesa dei lavoratori. Ora stiamo seguendo due vertenze grosse, in particolare la Gestioncar [Gianturco, NA, ndr], un consorzio napoletano abbastanza grosso che sta chiudendo. Nelle riunioni del Tavolo Lavoro nazionale di Potere al Popolo! abbiamo incontrato molti lavoratori e lavoratrici, fra cui quelli a nero, i riders (che stiamo provando a sostenere) e un’altra serie di situazioni che cerchiamo di seguire. E abbiamo creato e distribuito in molte piazze italiane per il 1° maggio un Foglio con articoli e iniziative che riguardano la festa dei lavoratori.
Avete creato anche spazi per attività ludico-ricreative?
Sì, molti. Abbiamo riadattato la vecchia Sala colloqui dell’OPG in aula studio/biblioteca; abbiamo creato l’unica parete di arrampicata indoor di Napoli e un campetto da calcio. C’è anche una radio FM (in una stanzetta insonorizzata con i microfoni e il necessario) e avevamo un asilo condiviso – un progetto durato tre anni e per ora terminato perché i bambini sono cresciuti, gestito direttamente dalle mamme. Lì oggi abbiamo dato vita a un Media Center, una sala con wi-fi e computer utilizzata molto dai ragazzi anche per studiare, perché le biblioteche qua chiudono alle 16.30. C’è un’aula per gli studenti medi e un Doposcuola sociale, dove facciamo varie attività con i bambini del quartiere. Poi ci sono il teatro, la palestra, la sala attrezzi, il bar e ovviamente la cucina che servono per fare cene sociali di auto-finanziamento. Facciamo anche concerti in due aree, una in cui entrano circa 600/700 persone e un altro grande parcheggio in cui entrano fino a 2000 persone.
É particolarmente importante per noi il discorso sull’arte. C’è l’Atelier dove facciamo pittura e scultura. Abbiamo creato anche una cabina di regia. Ma tutto è sempre un work in progress… Lì ci sono alcune foto di come era questo posto all’inizio. In questa sala abbiamo ripitturato, ma ad esempio il pavimento è stato un grosso problema, perché vi erano state fissate delle sedie di ferro, che abbiamo dovuto segare. Abbiamo creato i camerini per gli attori e il palco, che ovviamente prima non esisteva. Abbiamo un gruppo di Teatro Popolare che produce in autonomia gli spettacoli (vedete alcune locandine delle stagioni precedenti) e ospitiamo progetti anche di altri teatri popolari. Ad esempio, questo spettacolo è stato fatto da una compagnia di donne vittime di violenza, che vivono in una Casa Famiglia e hanno messo su questo gruppo di teatro… Questo era invece di un’associazione di persone con problemi psichici. Alcuni invece sono proprio nostri, scritti dal nostro gruppo o re-interpretati, come l’Abicì della guerra di Brecht. Il teatro è un’attività che funziona molto, grossomodo facciamo spettacoli ogni due settimane.
Sempre qui facciamo il concerto di Natale con l’orchestra: perché la nostra idea è di offrire una programmazione culturale diversa sia da quella commerciale sia dalla musica di “moda” nei classici centri sociali (come techno o reggae), solo per fare cassa. Per noi tutti i generi musicali hanno pari diritto e pari dignità (jazz, swing, musica classica…). È un modo per fare accedere tutti a esperienze che normalmente costerebbero di più…
E come funziona la gestione della struttura?
Allora, abbiamo un’Assemblea di gestione che si tiene il giovedì, ma è molto semplice e pensata per la gente del quartiere, dove si fa soprattutto il calendario e ci si aggiorna su quello che si fa. Una volta al mese si fa aperta a tutti. Poi ogni singola attività ha la sua assemblea. È un bell’impegno perché sono circa 2/3 assemblee a settimana, più le attività quotidiane… Noi siamo aperti più o meno tutti i giorni dalle H 16 alle H 22-23, tranne sabato e domenica. Nel fine settimana ne approfittiamo per fare un po’ di lavoretti a Ex OPG e ci sono spesso anche i cortei e l’attività più politica, per cui di solito siamo chiusi. Siamo organizzati in due fasce di turni, quindi siamo grossomodo costantemente mobilitati!
Come funziona la partecipazione alle attività? Sono attività gratuite?
Qui dislocati per la struttura potete vedere dei pannelli in cui a fine anno facciamo un consuntivo delle nostre attività. Abbiamo una serie di corsi e facciamo un bilancio ogni anno per vedere quante persone li seguono, perché per noi indica il benessere dell’attività. Insomma, cerchiamo di ragionare in maniera razionale, e se un settore di attività non è stato produttivo o partecipato lo tagliamo perché evidentemente abbiamo valutato male o magari non abbiamo le risorse per tenerlo a un certo livello, etc.
Sono tutte attività gratuite, non c’è tessera, non paga nessuno e non viene pagato nessuno per farle. Il finanziamento del posto è dato fondamentalmente dalla vendita di magliette, borse e gadget che facciamo stampare con il nostro logo; dal bar, sempre aperto; e ovviamente dalle serate. Facciamo poi un Festival all’anno, ma anche se abbiamo serate importantissime non facciamo pagare oltre 5 euro. Una cosa per noi importante è che ogni attività sociale non è pensata come servizio autoreferenziale per il posto, ma cerchiamo di valorizzarla come bene di tutti, e di attivare un percorso verso l’esterno. Se facciamo un’attività sportiva, ad esempio, poi andiamo alla municipalità facendo pressione affinché un campetto sia messo a posto… L’idea è: io ti faccio entrare perché tu hai questo bisogno immediato, ma ti dico anche che di questo bisogno la soluzione non siamo noi, è lo Stato. Potremmo attivare molti più corsi, ma non lo facciamo a meno che non ci sia un compagno/a che li possa seguire “politicamente”. Questo per evitare che si creino quelle situazioni da “centro sociale” in cui, ad esempio, io seguo la radio e poi la vivo come cosa mia, non mi relaziono allo spazio, ci metto un contenuto discriminatorio perché a me piace un certo artista, etc.
Quindi: avete riqualificato e restituito questo ex manicomio criminale alla memoria della comunità e cercate di renderlo un luogo sociale attivo politicamente, con servizi per le persone bisognose… Ma qual è il rapporto fra Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo e Potere al Popolo? Qual è la vostra visione politica di fondo?
Come vi dicevo, siamo qui da circa 4 anni e abbiamo sistemato un po’ il posto, ma noi facciamo molta politica anche verso l’esterno. Insieme alla Rete dei Collettivi, Potere al Popolo! è il nostro impegno principale. Diciamo che noi siamo comunisti, anche “ortodossi” rispetto all’importanza che attribuiamo allo studio e alla conoscenza dei classici del marxismo. Ma in questa fase storica il tipo di approccio pratico-politico che ci sembra necessario è radicare di nuovo i comunisti a contatto con la classe.
Quindi: fare inchiesta sociale, interpretare i bisogni, diffondere coscienza di classe e dei propri diritti, e dimostrare di essere tu in grado di organizzare e di dare soluzioni. Per noi è importante non soltanto fare antagonismo su certe questioni, ma altrettanto riuscire a intervenire e migliorare le condizioni di vita delle persone. L’idea di fondo è che se vivi sulla tua pelle una contraddizione economica, però il terreno su cui ne prendi consapevolezza non è necessariamente quello del tuo posto di lavoro. Ad esempio: questo è un quartiere vario, composto di sottoproletariato, proletariato e piccola borghesia, qualche professionista… non un quartiere ricco. Le contraddizioni sono di tipi diversi. Come ci siamo mossi? In una prima fase abbiamo fatto inchiesta, cercando di capire cosa serviva al quartiere; poi abbiamo cercato di organizzare la risposta immediata, per far vedere che noi non siamo solo quelli che parlano e fanno il volantino venendo a dire a te come si dovrebbe fare una cosa, ma ti invitiamo a farlo con noi; quindi si cerca di utilizzare l’attività sociale per politicizzare, ma a livello molecolare, per contatto e creando relazioni (ad esempio ti fermi al bar e ti informi sulle attività del posto…). Poi quando dobbiamo fare un corteo o un’iniziativa più grande facciamo il giro di tutti i corsi.
L’area delle celle
Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo venne occupato nel marzo 2015, in un periodo freddo e ventoso per chi dovette presidiare l’occupazione con turni permanenti. La struttura è stata lasciata così come è stata trovata, solo parzialmente ripulita: siamo entrati in un contesto umido, malmesso, senza luce naturale e con neon sempre accesi, una galera. Sono stati trovati asciugamani, scarpe, carte e altro, tutto per aria: come se la gente fosse scappata all’improvviso. Da quando l’ex OPG è stato riaperto al quartiere sono state fatte oltre 400 visite guidate, anche con le scuole, motivo per cui si stanno cercando di fare dei pannelli fissi per raccogliere le testimonianze presenti sulle pareti.
L’Area delle celle si compone di una piccola infermeria – in cui sono state trovate radiografie con tracce di abusi e documenti analoghi; di stanze di passaggio, in cui si smistavano i pazienti detenuti; della cantina per le telefonate sotto supervisione della polizia penitenziaria in caso di tentativi di ammutinamento; l’area delle docce; un’area per il pranzo; e la parte di celle vere e proprie, singole e doppie. Ci sono diverse ali della struttura e sono tutte così.
Di fronte alle celle c’erano i palazzi, da cui si sentiva tutto ciò che accadeva al loro interno. Per questo alcune erano state sigillate da dentro e rese opache. Avevano due porte che venivano chiuse, una durante il giorno ed entrambe la notte. I detenuti potevano essere controllati in ogni momento grazie alla presenza di due fori, uno dei quali dava sul bagno, motivo per cui tentavano di coprirsi con asciugamani per evitare di essere guardati, una delle infrazioni più frequenti e fra le più punite. Quanto alle condizioni di detenzione, una cella singola tipica aveva un letto piccolissimo e strettissimo a una piazza; ai lati dei punti d’appoggio per legarvi le persone; il letto non aveva rete, ma solo un appoggio bucherellato di ferro, ed era fissato a terra. Lo spazio in cui potevi camminare durante il giorno erano circa tre passi. Poi c’era il bagno. I pazienti non potevano tenere suppellettili di nessun tipo, perciò a volte se le fabbricavano con quello che riuscivano a trovare (ad esempio i pacchetti di sigarette venivano adoperati come mensole con lo scotch).
Testimonianze sui muri
Sui muri troviamo alcune testimonianze tratte dal libro dedicato al recluso Vito De Rosa (Vito il recluso, disponibile e scaricabile gratuitamente dal web), anche se l’umidità ha fatto cadere molte parti di muro, dunque non è rimasto molto. Inoltre, quando i detenuti lasciavano il carcere, le autorità imbiancavano le pareti delle celle e non sempre è rimasto traccia dei loro racconti. In alcune celle invece ne abbiamo viste tante. Un detenuto aveva cercato di disegnare la cartina dell’Italia provando a ricordarsi dove si trovavano le regioni. Alcune testimonianze sono deliranti, ma c’era anche un livello di accortezza, per cui ci si esprimeva in liguaggio cifrato. Emerge però lo stato d’animo di fondo. Un detenuto scrive: “Agg’ fa’ ‘no sterminio”. Altri parlano di “streghe”, una parola in codice che stava per i dirigenti dell’OPG, mentre gli “insetti” erano i secondini. Così leggiamo: “Mamma, papà, come faccio a diventare amico di un insetto? Se lo chiamo amico mi coercisce e mi picchia”. Oppure: “Quando dico la verità mi castigate e quando dico le bugie mi premiate”.
All’ex OPG di Napoli vennero rinchiusi anche camorristi (ad esempio Raffaele Cutolo, mafioso italiano, fondatore nonché capo della Nuova Camorra Organizzata). Un detenuto scrive: “Io e il Padre nostro e chiunque vedo gli dò tutto il potere, il potere e il comando purtroppo l’ha preso il male”, e commenta: “Se questi erano veramente pazzi Beniamino non ci andava a parlare, fanno gli scemi e pazzi ma non lo sono. Speriamo che siano criminali saggi e non streghe”. Questi malavitosi si facevano mandare qui perché pagando vivevano nell’impunità.
Sui muri troviamo anche poesie, fra cui quelle di Michele Fragna, ex-paziente dell’OPG e oggi ancora vivo, con cui spesso gli attivisti hanno fatto iniziative pubbliche. Fragna soffriva di disturbo bipolare, era entrato all’OPG a 22 anni per l’omicidio del suo migliore amico ed era stato sottoposto a terapia farmacologica. Dunque per la maggior parte del tempo era lucido, ma nonostante ciò lo misero nella stessa cella con paranoici e schizofrenici. Con le lotte sociali degli anni Settanta vennero introdotte nella struttura attività per i detenuti malati: una volta al mese c’era il “cinema” con vecchi film di Totò o Edoardo De Filippo, e per chi stava un po’ meglio fecero dei corsi di disegno o di ceramica. Ma per la maggior parte del tempo le persone venivano completamente abbandonate a sé stesse.
Intervista di Manuela Ausilio con Salvatore Prinzi, co-fondatore di ex OPG Je so’ pazzo.
Visitate l’Ex OPG Occupato Je so’ pazzo a Napoli in Via Matteo Renato Imbriani, 218