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Cooperative City in Quarantine #6: BENI COMUNI – IT

 

I beni comuni urbani (Urban Commons) sono tutti quegli spazi, servizi e risorse che favoriscono il benessere delle comunità locali e sono gestiti da queste in modo diretto. Prendersi cura di questi beni di comunità vuol dire aiutare i cittadini e le cittadine, che vedono soddisfatte le loro esigenze immediate. I beni comuni possono giocare un ruolo fondamentale nel processo di costruzione di una società più coesa e inclusiva.

 

 

 

Alcune questioni fondamentali emerse nel corso dell’episodio:

  • i beni comuni (commons), nella loro interpretazione più ampia di pratiche di comunità fondate sulla solidarietà e la condivisione, si stanno rivelando risorse importanti in grado di fornire servizi essenziali di welfare agli strati sociali emarginati della società;
  • i fornitori di servizi (di beni comuni) – istruzione, educazione e tempo libero – hanno bisogno anche in tempi non “eccezionali” di uno spazio che consenta loro di supportare le comunità vulnerabili, esigenza che emerge in modo ancora più chiaro oggi che si sono dovute organizzare la distribuzione di cibo e attività mutualistiche analoghe;
  • bisogna garantire il riconoscimento degli spazi comuni attraverso il sostegno politico e finanziario, per assicurarci che sopravvivano anche dopo l’emergenza, come strutture di supporto anche sul lungo periodo per le comunità;

È necessario dare vita a nuove forme di solidarietà, tanto più in questo momento sfidante.

Per questo durante il periodo di crisi Covid-19 ci siamo interessati ad alcune di queste esperienze, incontrando molti comuni, associazioni e gruppi informali che ogni giorno si trovano a dover affrontare situazioni critiche nel corso delle loro attività. E abbiamo chiesto loro di raccontarci qualcosa delle attività che oggi stanno portando avanti.

La cooperazione e la solidarietà, lo sappiamo, hanno bisogno di contatto fisico, e non è facile immaginare soluzioni collettive in un periodo simile. Il senso di questo appuntamento è stato quindi socializzare la conoscenza di alcune soluzioni sperimentate fino ad oggi per i bisogni sociali più comuni.

Gli Urban Commons sono legati essenzialmente alla percezione della loro esistenza fisica. Ma in questo momento le loro attività si stanno sviluppando in diversi modi, ad esempio migrando verso lo “spazio digitale”. Abbiamo raccontato quindi l’esperienza di GeCo, un progetto che mappa le iniziative di solidarietà in tutta Europa con l’obiettivo di creare un’infrastruttura volta a facilitarne il processo di condivisione e networking.

Hanno facilitato il dialogo Alessandra Quarta, Prof. Associato presso l’Università di Torino e coordinatrice del progetto GeCo (Generative Commons) Living Lab, e Daniela Patti, condirettrice di Eutropian.

Fra gli ospiti:

  • Ugo Mattei Coordinatore dell’IUC (International University College of Turin) – Torino (Italia)
  • Duygu Toprak Curatrice del libro “ORTAKLAŞA: Commoning the city” dedicato ai beni comuni in Turchia – Ankara (Turchia)
  • Martin Locret Project Manager presso Plateau Urbain, cooperativa che supporta l’uso temporaneo di edifici vuoti – Parigi (Francia)
  • Joaquin de Santos Responsabile Progetti Europei presso il Community Land Trust Brussels – Bruxelles (Belgio)
  • Andrea Simone Cofondatore di Nonna Roma, associazione di mutuo soccorso operante nel quartiere Pigneto – Roma (Italia)
  • Natasha Dourida Cofondatrice di Communitism, comunità di professionisti creativi che gestisce uno spazio comunitario per la promozione di pratiche mutualistiche – Atene (Grecia)

In che modo il “comune” può trarre vantaggio dalla situazione attuale?

Ugo Mattei – L’epidemia Covid-19 è solo un’altra drammatica crisi capitalista, che sicuramente ha sofferto maggiormente chi si trovava “in fondo alla piramide” sociale. Ma la società intera ne è stata travolta, a livello macro e micro. A livello micro si stanno sviluppando spontaneamente a seguito di questa crisi molti beni comuni – un esempio di questo bene comune spontaneo che aumenta costantemente è il paniere di cibo donato da un fornaio, pronto ad aiutare chi non può permettersi di acquistarlo. A livello macro il capitalismo passa da una crisi all’altra, non c’è nulla di nuovo al riguardo: ma questa è un’immensa opportunità che non avremmo in nessun altro momento. Durante una crisi, infatti, possono accadere molte cose che non possono avvenire durante un periodo ordinario di produzione di massa. Naturalmente il cambiamento, da solo, non è qualcosa di necessariamente positivo. Quando la crisi ci ha colpito nel 2008 non c’è stato nulla che potessimo contrapporre come alternativa, non eravamo preparati. Il movimento dei beni comuni non era organizzato – che, anzi, si è diffuso più tardi in tutto il mondo proprio come risposta a quella crisi. Possiamo fare tesoro delle esperienze precedenti, e cogliere l’opportunità di utilizzare lo spazio digitale per fare del “mettere in comune” un’idea egemonica, per mettere in campo finalmente un’azione transnazionale di contrasto alla disuguaglianza.

Molti beni comuni sono concepiti specificamente per rivitalizzare i vuoti urbani, ad esempio gli edifici abbandonati. Ora che lo spazio sociale non può più essere fisico, come vi state regolando – anche rispetto a chi non ha una casa in cui vivere?

Martin Locret – Le nostre attività sono rivolte di solito ai lavoratori indipendenti del settore culturale e le gestiamo in edifici vuoti e/o abbandonati. Siamo stati in grado di riorganizzarci rapidamente nel cambio di contesto perché da sempre intendiamo i beni comuni come qualcosa in grado di saper rispondere e adattare il più rapidamente possibile. Peraltro, non stiamo facendo questo in solitaria – abbiamo legami solidi con “Aurore” e “Yes We Camp”, organizzazioni che lavorano nei settori dell’urbanistica e del sociale, e con il loro aiuto ci siamo conformati al protocollo sanitario e abbiamo dotato i nostri spazi fisici di tutto il necessario per assistere i senzatetto, trasformandoli in rifugi diurni. Forniamo ai clochard cibo, telefono, internet e, naturalmente, servizi igienici. Siamo anche riusciti a predisporre uno spazio in cui possono riposare per alcune ore, se ne hanno bisogno.

Joaquin De Santos – Solitamente coinvolgiamo i residenti in un processo di costruzione della comunità anche prima che si trasferiscano. Questo ha contribuito alla creazione di quel senso generale di coesione, resilienza e solidarietà che possiamo riconoscere in questo periodo. Stiamo anche cercando di costruire una comunità fra i nostri associati: siamo sempre a disposizione e facciamo in modo che conoscano i loro diritti e i benefici cui possono accedere. Molti di loro non conoscono le normative in vigore e non hanno idea di come accedere ai meccanismi di sostegno, mentre chi di loro è in lista d’attesa per ottenere un alloggio può rivolgersi a noi per avere assistenza legale nel caso in cui si verifichino problemi con i proprietari a seguito per un reddito che viene a mancare. Oggi sono ancora più convinto del fatto che i progetti basati sulla solidarietà, sull’aiuto reciproco e sulla cooperazione fanno davvero la differenza e danno vita a comunità più forti e resilienti.

Natasha Dourida – Noi, fortunatamente, non ci troviamo in una condizione di emergenza per non poter pagare la sede che ci ospita, perché lo spazio ci è stato concesso gratuitamente in cambio della ristrutturazione della parte di nostra competenza. I senzatetto vivono lì al momento, quindi noi li stiamo aiutando e allo stesso tempo loro aiutano noi a rinnovare la nostra visione. Rappresentiamo un progetto relativamente recente (2016), ma cresciuto molto rapidamente. Abbiamo istituito un luogo per le donazioni di abbigliamento, gestiamo una galleria e un cinema, e organizziamo altri eventi culturali. A causa della pandemia la nostra attività è ovviamente ferma, e il blocco ci ha colto in un periodo di tranquillità in cui stavamo ridefinendo i nostri obiettivi. Ognuno di noi collabora su diverse altre iniziative quindi, molto probabilmente, avremo occasione di condividere le nostre idee e di contribuire su nuove attività insieme ad altri.

L’accesso al cibo sta diventando un problema per un numero sempre maggiore di persone. Cosa è cambiato nel corso di questa crisi?

Andrea Simone – Nonna Roma è stata fondata nel 2017 nel quartiere romano del Pigneto. Abbiamo capito subito che c’era una grande quantità di persone che viveva in condizioni di povertà e molto vicina all’indigenza, malgrado il pesante processo di gentrificazione avvenuto. Prima dell’epidemia di Covid-19 le nostre attività includevano assistenza legale gratuita, progetti educativi e un programma per l’imprenditorialità dal basso verso l’alto, iniziative per i ceti popolari, oltre a un programma di aiuti alimentari che ha sostenuto circa 300 famiglie. Ora stiamo consegnando alimenti a domicilio, siamo arrivati a oltre 2000 famiglie, e sta emergendo una fascia di molti “nuovi poveri”. Fortunatamente, il gruppo di volontari è ora più grande (da soli 50, siamo ora oltre 200) e stiamo ricevendo molte donazioni. Certo, non riusciamo a portare avanti il resto dei nostri programmi, passando all’attività online abbiamo ridimensionato il nostro quadro di attività. Con il distanziamento sociale non è facile costruire la comunità. Oggi stiamo affrontando sfide enormi, indubbiamente, ma speriamo sia una condizione solo temporanea.

Martin Locret – Noi siamo stati contattati dal comune di Parigi, che ci ha chiesto se potevamo sostenerli nella distribuzione alimentare, visto che le nostre attività si svolgono in edifici vuoti e/o abbandonati. Siamo stati in grado di assecondare immediatamente la richiesta perché abbiamo sempre creduto che i beni comuni urbani dovessero essere in grado di rispondere e adattarsi il più rapidamente possibile.

Duygu Toprak – In Turchia ogni attività legale di solidarietà è classificata come impresa. La normativa qui non consente di funzionare con forme giuridiche differenti da questa, perciò la maggior parte di questi spazi sono registrati come attività commerciali. Di conseguenza, oggi sono chiusi. A parte i giardini urbani, però, i beni comuni che sono riusciti ad integrarsi con i programmi locali di approvvigionamento possono distribuire kit igienici e pacchi alimentari.

Possiamo reinventare un nuovo modello per i beni comuni e lo sviluppo della società del futuro?

Ugo Mattei –  Sono molto preoccupato riguardo al futuro perché ci troviamo in una profonda revisione del modello fascista, con l’aumento dei processi di sorveglianza sociale e di concentrazione di capitale e potere. Dobbiamo creare una rete di relazioni, seria e solida, fra tutte quelle persone che sono stanche di essere pazienti, dobbiamo essere chiari rispetto a quello che facciamo e organizzarci molto bene. I beni comuni devono mostrarsi apertamente – e politicamente – per quelle risorse che sono e per le azioni che mettono in campo. E in modo decisamente chiaro devono opporsi alla maggior parte di quegli attori politici che stanno già approfittando della situazione per sottrarre i diritti civili alla cittadinanza. Sono i beni comuni ora il sistema di welfare, mentre i governi stanno fallendo e i partiti politici hanno interesse solo per le prossime elezioni. Ci sono, tuttavia, alcuni segnali positivi: in qualche modo la gente sta iniziando a capire che la società è fatta di persone che hanno bisogno di rimanere connesse.

Natasha Dourida – Dal mio personale punto di vista, e rispetto a Communitism, questo blocco sanitario ha paradossalmente portato dei benefici alla nostra attività. Ci stiamo prendendo del tempo per decodificare cosa è accaduto e cosa sta accadendo, in che modo questo ci sta influenzando come individui e quali sono i prossimi passi da fare. La situazione attuale ci ha spinto a soffermarci molto di più sul modo in cui possiamo aumentare la nostra presenza, attività e creatività on line, su come essere pronti per i prossimi step.

Daniela Patti: In molti paesi si sta utilizzando la crisi seguita al Covid-19 come scusa, da parte di molti governi, per accentrare ulteriore potere nelle proprie mani.  Dall’altro lato molte attività di comunità sono nate proprio per contrastare le azioni dei governi. 

In che contesto i beni comuni urbani possono esserci d’aiuto?

Ugo Mattei – Dobbiamo essere vigili ed estremamente critici. Una linea molto sottile separa l’essere un cittadino attivo dal diventare un nazionalista a servizio di uno stato di polizia. Dobbiamo quindi rigettare la medicalizzazione mentale della società, perché non consente alla soggettività di sopravvivere. L’Italia sta già attraversando una crisi enorme in termini di libertà di parola, mettere in discussione il potere sta diventando sempre più difficile, il bigottismo dilaga. Il ‘bene comune’ può aiutare la società a capire che solo aiutandoci a vicenda possiamo sopravvivere ai molti problemi che ci troviamo di fronte, e che bisogna attivare un processo di resistenza dal basso verso l’alto, e non viceversa.

 Ex industrie (GeCo)

Duygu Toprak – Ho pubblicato recentemente un libro sul tema dei beni comuni in Turchia, finanziato dalla European Cultural Foundation. Tratta delle politiche del “comune”, dell’economia solidale e delle risorse di comunità, raccogliendo contributi di professionisti e 20 casi studio di ispirazione, europei e turchi. Non sono ancora riuscita a fare il lancio, in realtà a causa dell’epidemia. Gli Urban Commons in Turchia sono aumentati in risposta alla crisi politica dell’estate 2013. La gente si è resa conto che unendosi in reti di solidarietà la sua azione avrebbe potuto avere un impatto. Nel caso della Turchia le reti locali esistenti sono aumentate in quantità e visibilità – per le strade ci sono diversi cestini in cui le persone possono lasciare cibo per coloro che non si possono permettere di acquistarlo. Fra le esperienze innovative, ora esiste una app con cui si può pagare il conto di qualcun altro, ad esempio. Questi sono davvero segnali positivi, ma non risolvono, purtroppo, i molti problemi che la nostra società stava affrontando già in precedenza. Alcune misure di contenimento che il governo ha attualmente adottato non hanno una base costituzionale – ad esempio solo gli over 60 sono obbligati a restare a casa, mentre la maggior parte della forza-lavoro prosegue le sue attività, perché non può lavorare da casa. Questo ha comportato un aumento del livello di diseguaglianza nella nostra società, dando origine a nuove ondate di odio per ragioni qualsiasi nei confronti degli anziani che camminano per strada, mentre il divario digitale rende più difficile l’accesso all’istruzione per i gruppi sociali più vulnerabili. Per non parlare dell’app, spaventosa, lanciata dal Ministero della Salute che traccia le persone che risultano positive al Covid-19.

In che modo le autorità locali stanno affrontando la crisi? In alcuni casi stanno dando vita a nuove alleanze con le associazioni che si occupano di beni comuni, potrebbero tornare utili anche per il futuro…?

Martin Locret – Cerco sempre di essere ottimista. Mi auguro che questo processo possa rappresentare un segnale forte di avvertimento per le autorità locali, ma quello che stiamo facendo in questo momento è gestire l’emergenza nel miglior modo possibile. Allo stesso tempo, stiamo provando a dimostrare che se cooperassimo continuativamente potremmo tutti trarre beneficio dai beni comuni. Possiamo far evolvere questa relazione in futuro? Lo Stato fa quel che può o molto meno? Gestire gli spazi urbani è sempre un’azione politica, perciò continueremo a supportare la legalizzazione formale degli spazi occupati, da affittare a titolo gratuito. Semplicemente, perché la società ne trarrà del bene.

Duygu Toprak – La risposta dei governi locali è stata sorprendentemente in linea con l’idea dei beni comuni, ma è in conflitto con il governo centrale. C’è quindi una sorta di “competizione” di campagne di solidarietà fra questi due livelli: da un lato sostanzialmente si chiede ai cittadini di donare, dall’altro il governo centrale è accusato di ostacolare le iniziative locali, soprattutto laddove i governi locali sono guidati da partiti di opposizione. Il che è ancora più scoraggiante, se si considera che i cittadini già pagano le tasse, che dovrebbero servire a finanziare le misure di contenimento. L’aspetto positivo è invece che si può notare un progressivo aumento di consapevolezza livello comunale.

Daniela Patti: considerando che il Comune può avere un impatto così decisivo e positivo sulla società, deve l’amministrazione deve sostenere a livello finanziario e burocratico i beni comuni ma, allo stesso tempo, deve avere un certo grado di autonomia..

I business model ibridi possono supportare i beni comuni urbani nel garantire fattibilità e visione?

Joaquin De Santos – Il sostegno pubblico è necessario, soprattutto se si vuole operare con gli strati sociali più svantaggiati e che la propria azione abbia un impatto significativo. L’agenda liberale, sfortunatamente, non aiuta: il settore no-profit è molto spesso considerato solo un’altra forma di business. E’ una decisione politica stabilire come impiegare i fondi pubblici, quindi è assolutamente necessario ribadire che lo Stato deve continuare a supportare il nostro lavoro. Alla “Community Land Trust” crediamo che la terra debba essere utilizzata per il bene comune e non come strumento speculativo. Con questo intendiamo dire che la pianificazione dovrebbe essere fatta in un altro modo. Abbiamo cercato di collaborare con altre iniziative del settore no-profit, per creare degli spazi da utilizzare in comune. Abbiamo messo insieme quello che avevamo già, e abbiamo deciso di creare una cooperativa fondiaria. Dopotutto, credo sia il momento giusto per farlo. Dopo la crisi dovremmo continuare a vivere in questo mondo neoliberista, o dovremmo piuttosto iniziare una transizione verso una forma di collettività socialmente, economicamente e politicamente giusta? Continueremo a chiedere il supporto del pubblico: perché se lo Stato è con noi possiamo davvero fare la differenza. Allo stesso tempo, faremo del nostro meglio per costruire movimenti più ampi possibili in grado di supportarci finanziariamente, in termini di influenza politica e coinvolgimento sociale.

Siamo nel bel mezzo della crisi, perciò è difficile pensare alle lezioni apprese ma: che insegnamento possiamo raccogliere, secondo voi, da questa situazione?

Andrea Simone – Abbiamo sicuramente imparato quanto sia grande e generosa la nostra comunità. Può diventare dispersiva e fluida, ma può ancora fiorire. Non credo che uno stato di emergenza sia la condizione migliore per un grande cambiamento, ma offre sicuramente l’opportunità di diventare più resilienti.  Vogliamo che il mutualismo diventi una realtà sempre più stabile. Credo che il confine fra associazioni e istituzioni stia diventando più sottile – alcune istituzioni che in passato non hanno mai collaborato, ora ci cercano costantemente. Ci aspettiamo riconoscimento, rispetto, libertà e supporto dall’amministrazione comunale.  Il “bene comune” non può essere considerato sempre una minaccia, come di solito viene rappresentato nel discorso politico. Negli ultimi 3 anni abbiamo cambiato più di 5 sedi e finalmente, solo un paio di settimane fa, abbiamo ottenuto una sede temporanea dal Comune, in piena crisi. Questa condizione deve essere resa permanente e non valere solo per il periodo di emergenza. Credo inoltre che le misure politiche adottate fino ad oggi non siano efficaci. Il supporto economico non è distribuito in modo equo, le procedure burocratiche di accesso ai sussidi sono molto lunghe e complicate e la maggior parte dei gruppi sociali più vulnerabili ne sono esclusi. Ultimo, ma non meno importante, a “Nonna Roma” crediamo che il mutualismo sia l’unico modo per risalire da questa crisi.

Ugo Mattei – Dovremmo elaborare un documento comune. Tutti coloro che appartengono all’élite dominante parlano solo di misure adottate da governi e federazioni di Stati. Si discute solo dei soldi pubblici, ma molte persone stanno guadagnando, facendo profitto con questa crisi. Bisognerebbe avere un approccio diverso per cui, essendo una comunità, tutti dovrebbero contribuire reciprocamente. Dovremmo rifiutare l’approccio paternalistico dei governi e dell’UE, da cui veniamo nutriti forzatamente.

Natasha Dourida – Da questo punto di vista la Grecia si trova in certo modo avvantaggiata. Il nostro paese è stato quasi annientato dalla crisi del 2008, le persone sono state abbandonate dal loro stesso Stato, perciò i meccanismi di solidarietà sono già funzione, ormai da più di un decennio. La nostra società è relativamente più serena ora perché – sembra assurdo – ci stiamo prendendo una pausa. Stiamo ancora riprendendo fiato prima del prossimo colpo, e sappiamo che non saremo soli: perché questa volta il problema è globale. Abbiamo un approccio diverso alla resistenza perché siamo stanchi di dovere, anche nella difficoltà, rispettare le regole di qualcun altro. Possiamo quindi dire che stiamo sviluppando dei nostri modi “creativi” di sopravvivenza, e stiamo trovando da soli la nostra via d’uscita. Come comunità, la maggior parte di noi sta sperimentando nuove forme di autogoverno: stiamo imparando a coltivare il nostro cibo e stiamo diventando più efficienti dal punto di vista energetico, ad esempio. Nel periodo a venire potremmo trovare orecchie più interessate a ragionare su un modello economico autosufficiente, e molte iniziative come la nostra potrebbero effettivamente fiorire in futuro.

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